Il patto di prova

L’art. 2096 c.c. stabilisce che il patto di prova è l’accordo con il quale lavoratore e datore di lavoro stabiliscono volontariamente che il consolidarsi del rapporto di lavoro sia condizionato al preventivo esperimento di un periodo di prova.

Il patto di prova ha lo scopo di permettere alle parti di valutare la reciproca convenienza all’instaurazione del rapporto di lavoro.

Il lavoratore, in particolare, avrà l’opportunità di vagliare l’esperienza e le condizioni lavorative offerte, mentre il datore potrà verificare le effettive competenze e l’attitudine del lavoratore ad integrarsi nel contesto produttivo aziendale.

Durante il periodo di prova i diritti e gli obblighi delle parti sono pienamente operanti. L’unica particolarità consiste nel fatto che in tale periodo le parti possono recedere liberamente dal contratto senza obbligo di preavviso (con conseguente esonero dal pagamento della connessa indennità) e, secondo la giurisprudenza, di motivazione (Cassazione 17.11.2010, n. 23224).

Al termine della prova, in mancanza di recesso, la prosecuzione anche per breve periodo dell’attività lavorativa comporta l’assunzione definitiva del lavoratore ed il periodo prestato si computa nell’anzianità di servizio. Come previsto dalla circolare ministeriale n. 12/2016 il recesso del lavoratore durante il periodo di prova potrà avvenire liberamente senza ricorso alla procedura telematica delle dimissioni.

La prova può essere concordata anche se tra le parti sono intercorsi precedenti rapporti di lavoro, purché il test abbia ad oggetto mansioni differenti.

Forma: l’assunzione del prestatore di lavoro subordinato per un periodo di prova deve risultare da atto scritto e sottoscritto da entrambe le parti, a pena di nullità (art. 2096 c.c.); in caso contrario, infatti, il patto di prova viene considerato come non apposto (Cass., SU, 9 marzo 1983 n. 1756); il

datore di lavoro, pertanto, non può licenziare un lavoratore per mancato superamento del periodo di prova se questi non ha sottoscritto la lettera di assunzione contenente la relativa clausola (Cass. 24 gennaio 1997 n. 730).

In mancanza di una precisa disposizione legale, la giurisprudenza ritiene che il patto di prova debba essere firmato contestualmente alla stipulazione del contratto di lavoro e comunque prima della esecuzione dello stesso (Cass. 3 giugno 2002 n. 8038).

La nullità che deriva dalla mancata o non contestuale stipulazione per iscritto del patto di prova comporta la definitiva instaurazione del rapporto di lavoro.

Contenuto: seppur in mancanza di precisi riferimenti normativi, è doveroso segnalare che secondo la giurisprudenza (si citano le sentenze di Cassazione n. 3852/2015, n. 16587/2017 e più recentemente la n. 6552/2023,) il periodo di prova deve contenere l’indicazione delle precise mansioni affidate al lavoratore. Ciò al fine di consentire al lavoratore di impegnarsi secondo un programma ben definito in ordine al quale poter dimostrare le proprie attitudini ed al datore di lavoro di esprimere il proprio giudizio sull’esito della prova.

Durata: il codice civile non ha mai contemplato una durata massima, demandando alla contrattazione collettiva, il lasso di tempo previsto, in relazione alla categoria ed al livello di inquadramento; tale “lacuna” è stata colmata l’estate dell’anno 2022 con il decreto c.d. “Trasparenza”: partire dal 13 agosto 2022 – ai sensi dell’articolo 7, co. 1, del D.lgs. 27 giugno 2022, n. 104, nei casi in cui è previsto il periodo di prova (che, quindi, resta del tutto facoltativo), questo non può essere superiore a 6 mesi, salva la durata inferiore prevista dalle disposizioni dei contratti collettivi.

Contratti a termine: ai sensi sempre del decreto Trasparenza, se il contratto è a termine, il periodo di prova va stabilito in misura proporzionale alla durata del contratto (e, quindi, ridotto in misura proporzionale rispetto al limite totale di 6 mesi) e alle mansioni da svolgere (mansioni “più alte” uguale periodo di prova “più lungo”, e viceversa) in relazione alla natura dell’impiego. Il legislatore non ha (purtroppo) fornito i criteri di proporzionalità, rimessi, dunque, alle parti.

Inoltre, in caso di rinnovo di un contratto di lavoro per lo svolgimento delle stesse mansioni, il rapporto di lavoro non può essere soggetto a un nuovo periodo di prova.

Le parti possono prevedere anche una durata minima garantita del periodo di prova, durante la quale non è possibile recedere dal rapporto di lavoro, se non per giusta causa.

In ogni caso, anche in assenza di una durata minima, il datore di lavoro è tenuto egualmente a consentire l’esperimento che costituisce oggetto della prova, dando la possibilità al lavoratore di dimostrare la propria idoneità e capacità a svolgere la mansione dedotta in contratto, concedendogli

un lasso di tempo ragionevole e sufficiente (Cass. 1104/89; Cass. 4578/86).

Computo: il periodo di prova può essere conteggiato in giorni di effettiva prestazione lavorativa o in giorni di calendario. Qualora il Ccnl di riferimento nulla preveda in merito, il computo viene eseguito tenendo conto dei giorni/mesi di calendario.

Principio generale sancito da Cassazione dispone inoltre che il periodo di prova non venga sospeso nei giorni di mancata prestazione lavorativa che rientrano nel fisiologico rapporto di lavoro, come i riposi settimanali e le festività. Al contrario, la prestazione è da considerarsi non erogata per eventi non prevedibili al momento in cui è stato stipulato il patto di prova, come malattia, infortunio, gravidanza, puerperio, permessi, sciopero, sospensione dell’attività del lavoratore e godimento delle ferie annuali “in quanto preclude alle parti, sia pur temporaneamente, la sperimentazione della reciproca convenienza del contratto di lavoro” (Cass. 4347/15). Tale principio trova applicazione solo in quanto non preveda diversamente la contrattazione collettiva, la quale può attribuire od escludere rilevanza sospensiva del periodo di prova a dati eventi, che si verifichino durante il periodo medesimo.

Casi in cui il recesso datoriale è illegittimo:

  1.  la prova non sia stata effettivamente consentita; ciò avviene, ad esempio, quando:
    – la verifica è stata condotta su mansioni diverse da quelle di assunzione (Cass. 12 dicembre 2005, n. 27310);
    – il lavoratore dimostra che il periodo è stato inadeguato a permettere un’idonea valutazione delle sue capacità (Cass. 6 giugno 1987, n. 4979);
  2. la prova sia stata effettivamente superata dal lavoratore in modo positivo;
  3. il licenziamento sia riconducibile ad un motivo illecito o estraneo al rapporto di lavoro. In tal caso spetta al lavoratore dimostrare l’esistenza di una di queste situazioni per ottenere l’annullamento del recesso (Corte Costituzionale 22 dicembre 1980 n. 189);
  4. il recesso sia avvenuto prima della scadenza del termine, qualora le parti abbiano stabilito una durata minima garantita del periodo di prova per consentire l’effettività dell’esperimento.

Segnaliamo, in conclusione, l’ordinanza n. 23927/2020 della Corte di Cassazione la quale ha affermato che in caso di licenziamento avvenuto durante il periodo di prova, incombe sul lavoratore, ai sensi dell’articolo 2967 cc, di dimostrare il positivo superamento del periodo di prova o che il recesso sia stato determinato da motivo illecito, dunque estraneo alla funzione del patto di prova. Il caso di specie faceva riferimento ad un lavoratore, socio unico e amministratore di una SRL che si opponeva allo stato di fallimento della propria società, dalla quale ne sarebbe conseguito il mancato ricevimento del credito personale maturato. Il soggetto interessato veniva assunto presso una società di ripianamento, mediante un contratto che prevedeva un periodo di prova di 6 mesi, un termine di avvenuto consolidamento della fase di ristrutturazione e rilancio della società, poi fallita, e un patto di non concorrenza. Al termine del periodo di prova, il lavoratore vedeva intimarsi il licenziamento. Quest’ultimo chiedeva in via giudiziale l’accertamento della nullità del patto di prova e l’illegittimità del licenziamento. La Suprema Corte, ribandendo il principio suddetto, respingeva il ricorso del lavoratore a causa dell’omessa deduzione di fatti decisivi a fondamento della pretesa del lavoratore stesso. Il patto di prova ha infatti natura discrezionale e dispensa il datore di lavoro dall’onere di provarne la giustificazione. Di converso, l’onere della prova rimane in capo al lavoratore.

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